Nel 2013, H&M lanciò una campagna per sensibilizzare la clientela sul tema dell’abbigliamento ecologico, dando l’opportunità di riciclare i propri tessili usati che sarebbero poi stati trasformati in nuovi look.

Per la primavera/estate 2018, l’azienda svedese ha realizzato una capsule con materiali di riciclo come l’argento derivato dai rottami metallici, il poliestere riciclato ed il cotone organico, che hanno dato vita ad una camicetta, ad un paio di scarpe, a una minigonna e ad un maxidress in seta riciclata.

Oggi, la linea Conscious si espande, lasciando entrare un abito da sposa derivato dalle reti di plastica riciclata e dai residui di nylon. Ma cosa c’è davvero dietro l’“abbigliamento ecologico” proposto dal pronto moda?

La parola lo svela chiaramente: affinché nuovi outfit possano essere proposti sul mercato ogni due settimane, la filiera lavora ad un ritmo super-serrato, che non consente il rispetto del tessuto e nemmeno della manodopera.

Sostenibilità significa anche eticità, e purtroppo molti dei capi realizzati dal fast fashion vengono prodotti proprio in quei Paesi dove lo sfruttamento delle risorse è all’ordine del giorno.

I tessuti riciclati proposti non sono infatti del tutto sostenibili. Ne è un esempio il cotone organico, che viene importato in Svezia per il confezionamento e distribuito nel resto dell’Europa a partire da Paesi come l’India ed il Bangladesh. Altro esempio è la seta, derivata dalla cottura dei bachi.

A mettere mano all’annoso problema della plastica negli oceani (secondo Ocean Conservancy, nel 2017, ben 690 specie marine sono state messe in pericolo dai residui di polimeri plastici), è stata l’azienda americana Polartec, che già nel 2014 aveva dato vita a circa 27 milioni di giacche. Più recentemente, ci ha pensato l’italiana Quagga, che con Q Bottles ha realizzato una linea di abbigliamento ecologico con materiali di riciclo.

Tutta italiana è anche l’idea di Irene Sarzi Amadè, stilista di Sabbioneta che produce moda sostenibile con tessuti riciclati da sacchi per l’immondizia, reticelle per fiori e agrumi, bottiglie di plastica e altri materiali di scarto.

L’abito da sposa lo aveva già ideato, nel lontano 2011, l’eco-designer britannica, Michelle Brand. Sono serviti più di 2.200 basi, 6.512 tappi e 13.880 etichette da bottiglie di plastica per una creazione di haute couture con tanto di strascico spettacolare.

Ma in rete è possibile trovare anche diversi tutorial per poter realizzare da soli, il proprio abito da bottiglie di plastica.

Articolo in collaborazione con Algo Natural negozio di abbigliamento biologico ad Udine.

Consulente SEO e blogger professionista